20 gennaio 2013

Morire per fuggire

...brutta storia quela di Sara.
una ragazza succube della sua malattia.
una ragazza che non vedeva nel soccorso degli altri la via per salvarsi.
...anzi, in quel soccorso, forzato e mal gestito, Sara ha trovato la forza di suicidarsi.
ancora penso alla storia andata in onda questa sera su italia 1 a le IENE.
Il servizio di Nadia Toffa ha parlato della storia di Sara.
Potrebbe sembrare la solita storia "strappaemozioni" su una ragazza sofferente e anoressica, ma quella di Sara è secondo me la storia del LIMITE.
Da anni Sara soffriva: la sua famiglia non sapeva piu cosa fare quando ha saputo che Sara si era data all'accattonaggio per andare a comprare di nascosto merendine e brioscine che neanche mangiava. ..mi sembra superfluo descrivere le condizioni in cui era arrivata.(invito a rivedere il serviziohttp://www.video.mediaset.it/video/iene/puntata/368659/toffa-morire-danoressia.html  ).
Sara fuggiva sempre.
Fuggiva per soddisfare quelle idee che da tempo coltivava e che da tempo si erano impossessate di lei;
 ...come è labile il confine. Non sarà stato per niente facile subire per Sara. ...subire le sue convinzioni.
Non sarà stato facile subire anche l' idea di un T.S.O. e questo l' ha fatta fuggire per sempre togliendosi la vita.
Due sono i punti su cui mi piacerebbe riflettere con voi:
-Fino a che punto è giusto sottoporre una persona a dei Tratamenti Sanitari Obbligati? ...mi sembra contro il naturale principio di Libertà.
-In che condizioni è giunta la Sanità Italiana che non è riuscita per ben due volte ad evitare che Sara scappasse dalla struttura ospedaliera dove era stata obbligatoriamente ricoverata: come si pone l' attuale politica? cosa potrebbero rispondere i politici ora?

11 aprile 2012

IL VACCINO PEDIATRICO TRIVALENTE PUO' CAUSARE L'AUTISMO INFANTILE?





Il tribunale di Rimini ha condannato pochi giorni fa il ministero della Salute imponendo il risarcimento nei confronti di un bambino diventato autistico a seguito di un vaccino trivalente contro morbillo, patorite e rosolia.
IL LEGAME VACCINO – AUTISMO - Questa decisione ha contribuito a rinfocolare le polemiche tra tutti coloro che accusano il vaccino ritenendo che questo incoraggi e scateni la sindrome di Kanner. Contro la decisione del tribunale romagnolo si sono schierate varie associazioni scientifiche, secondo le quali le evidenze sperimentali hanno escluso qualsiasi legame tra vaccini e autismo.
LA STORIA – La storia iniziò nel 2004. Secondo i genitori, il bimbo avrebbe manifestato i primi sintomi il giorno dell’iniezione. Tre anni dopo arrivò la diagnosi di autismo, con conseguente riconoscimento dell’invalidità totale, dovuta proprio al vaccino. La sentenza si basa sugli studi del medico britannico Andrew Wakefield, il quale nel 1998 pubblicò nella rivista “Lancet” un’indagine nella queale venivano descritti numerosi casi di bambini vaccinati che finivano per diventare autistici.
OPINIONI A CONFRONTO - Lancet ritirò lo studio dopo soli due anni dopo accuse di falsificazione, e alcune indagini pubblicate dal British Medical Journal hanno definito una “frode” le conclusioni di Wakefield, radiato nel frattempo dall’albo medico britannico.
LA SENTENZA – Il Calendario Vaccinale per la Vita ha espresso il suo sconcerto. L’organizzazione, composta da figure di rilievo nel campo dell’igiene e della sanità pubblica ha emesso un comunicato nel quale si esprime il timore per una sentenza che “avrà il solo risultato di far perdere fiducia in uno stumento fondamentale per la salute dei bambini e della popolazione”. “Rischiamo -continua il comunicato- di assistere alla recrudiscenza di emergenze come quella del morbillo, inducendo nei genitori dei piccoli affetti dalla sindrome di Kanner la falsa speanza di aver trovato la causa scatenante di questa malattia”. A proposito di morbillo, in Italia nel 2011 sono stati contati 30 mila casi, frutto di buchi giganteschi nella copertura vaccinale.
L’IMMUNIZZAZIONE – In Europa invece si punta all’immunizzazione, ovvero alla sparizione della malattia dal nostro Continente, entro il 2015. Il tribunale del malato, dal canto suo, si dimostra più aperto e possibilità. “Non vogliamo allarmismi ingiustificati, ma non possiamo neanche sottovalutare gli elementi della sentenza. Le istituzioni devono fare luce sul caso e dare informazioni chiare e comprensibili ai cittadini e dev’essere fatto nel più breve tempo possibile”.



3 aprile 2012

Light it up blue

Solo ieri è accaduta la ricorrenza "Giornata Mondiale dell'Autismo 2012", la V Giornata Mondiale della consapevolezza dell'autismo, sancita dalle Nazioni Unite con la risoluzione 62/139 del 18 dicembre 2007.
Per sensibilizzare l'opinione pubblica, i monumenti del mondo si son illuminati di blu: un'iniziativa internazionale battezzata'Light it up blue' che ha coinvolto molti Paesi, tra cui Roma con l'Arco di Costantino.
Da New York, a Rio de Janeiro, da Sidney a Riyad diversi luoghi e edifici si son illuminati per indicare la sensibilità delle amministrazioni locali rispetto al problema.
Senza far riferimento alcuno alle numerose definizioni di "autismo" che si trovano in rete, e alle numerose campagne di sensibilizzazione che contribuiscono in maniera significativa a far conoscere questo aspetto umano patologico e non irreversibile, per il quale è fondamentale la presenza di una rete di servizi specialistici accessibili e diffusi in modo omogeneo in tutto il territorio nazionale, mi piacerebbe porre alla Vostra attenzione un articolo pubblicato qualche giorno fa sul blog del "Corriere della sera":

«...Iole è una donna speciale e suo figlio Mimmo lo sa. Anche se Mimmo soffre di autismo, sa che sua madre ha una marcia in più. Perché se oggi lui vive la vita di un uomo di 56 anni autonomo:se gira per Napoli da solo, frequenta librerie e circoli culturali, prende la funicolare e la metropolitana come se non avesse quella malattia, lo deve solo alla mamma.
Iole Ioele, 74 anni portati benissimo, racconta con leggerezza e profondità la sua storia straordinaria di donna che è riuscita a scendere nel mondo del figlio per riportarlo nella nostra realtà. Un racconto che sembra un film. Più incredibile di Rain Man. Ma anche più doloroso: «Ci sono stati giorni in cui speravo che Mimmo non si svegliasse più, in cui pregavo Dio che se lo portasse via un minuto prima di me, in cui pensavo di farla finita», ricorda. «Poi ho incontrato Giovanni Bollea, il medico che ha rivoluzionato la psichiatria infantile in Italia, e che mi ha insegnato a lottare. E a capire che anche nei casi più gravi c’è un margine di recupero, anche solo l’un per cento di miglioramento è una conquista. Per questo mi sento una vincente nella malattia di mio figlio e ho accettato di parlare con voi. Non per farmene un vanto, ma per dare coraggio a chi ha toccato il fondo dell’angoscia».
L’inferno di Iole comincia nel 1959. Mimmo, un bambino sano, precoce e molto intelligente, una mattina si sveglia diverso dal solito: «Sfuggiva il mio sguardo, chiamava me “io” e se stesso “tu”». Erano i sintomi che la malattia si era impossessata di lui. «Mimmo aveva perso la sua personalità. Come avviene in questi casi, questi bambini rifiutano la realtà, e poi lo diventano davvero. E i primi sintomi compaiono all’età di tre anni».
Oggi Iole conosce bene la materia, ma nel 1959 aveva solo 22 anni e un diploma di maestra elementare. «Mimmo era cambiato», riprende, «ai miei occhi era chiarissimo che ci fosse qualcosa che non andava, ma tutti la pensavano diversamente: mio marito, la mia famiglia, i maggiori luminari che avevo consultato. Per la società di allora un bambino o era intelligente o era scemo. È stato pazzesco per me. Il padre lo redarguiva continuamente, lo maltrattava, era deluso. Accusava me di non saperlo educare. Alla fine il matrimonio è finito e lui si è dileguato. Non ha retto, succede quasi sempre che uno dei due genitori fugga. Avevo contro anche i miei genitori. Mio padre era un ingegnere, mia madre un’insegnante, ma prima che Berto scrivesse Il male oscuro, anche le persone acculturate erano chiuse ai mali della mente. Mi dicevano di smettere di spendere tutti quei soldi con i medici e di comprargli una casa. Non capivano che lo aspettava solo il manicomio».
Mimmo cresce e le cose peggiorano. «Un giorno è scappato dall’asilo e io ho provato a rivolgermi all’Opera maternità e infanzia, un istituto napoletano in cui andavano solo le persone più povere», racconta. E lì avviene la svolta: i medici ricoverano Mimmo, riconoscono che si tratta di autismo e indirizzano la mamma al professor Bollea: «La prima cosa che mi ha detto è stata di non fare l’errore di tutti i genitori che dicono “tanto non potrà mai diventare come gli altri”. Lui mi ha fatto capire che qualunque cosa ci fosse da recuperare sarebbe stata una grande conquista e ho ingaggiato una mia battaglia personale, oltre che per amore di Mimmo».
Ma non era finita perché Mimmo peggiorava. Si rifiutava di mangiare cibi solidi, Iole lo ha nutrito con un tuorlo d’uovo, un bicchiere di latte e qualche pezzo di cioccolato fino all’età di 9 anni e mezzo. «Voleva camminare solo sui miei piedi, non mi guardava mai negli occhi, era aggressivo, faceva scenate per la strada, ogni passeggiata era un incubo. Così Bollea mi ha consigliato di ricoverarlo all’Elaion di Eboli. Era un posto straordinario, un villaggio aperto, senza cancelli né sbarre, in cui i ragazzi vivevano in case con i tutor, andavano a scuola e in piscina da soli. Per me è stato un colpo tremendo accettare il suo ricovero. Avevo un negozio di abbigliamento femminile in via Guantai Nuovi e ogni giorno andavo fino a Eboli solo per guardarlo da lontano e respirare la sua stessa aria».
Ma all’Elaion Mimmo ritrova la vita, tesse nuovi rapporti. Nessuno ha paura di lui e lui capisce che non deve avere paura del mondo. Quando esce dopo quattro anni, è un ragazzo nuovo. Mamma Iole ha cominciato a leggere, a studiare, segue diligentemente i consigli di Bollea, porta il figlio a fare psicoterapia tre volte alla settimana e lei stessa si sottopone a sedute di sostegno (erano gli anni ’70 n.d.r), si sobbarca tutti gli oneri economici. Rinuncia a tutto, anche a ricostruirsi una famiglia, lei che era bella da togliere il fiato. Trova un impiego a Mimmo e lo fa a modo suo, da persona speciale qual è: «A Secondigliano c’era una tipografia che aveva perso l’uso dei macchinari nel terremoto dell’80», ricorda, «e io mi sono offerta di aiutarli. A una condizione: dovevano prendere Mimmo con loro. Non chiedevo uno stipendio per lui, solo un lavoro tra persone perbene».
E poi accade quello che Frank Capra potrebbe definire un miracolo. E che forse un po’ lo è davvero. Iole la chiama “magia”: «Un giorno di 20 anni fa entra nel mio negozio un ragazzo: “Lei non sa chi sono io”, mi dice. Invece lo avevo capito perché somigliava a Mimmo: era suo fratello. Il mio ex marito si era risposato e aveva avuto Antonio e ora lui era lì davanti a me. “Ho bisogno di un lavoro, ma non voglio soldi”, mi diceva». E così Antonio scopre di avere un fratello e accade l’inimmaginabile: si “innamora” di Mimmo, lo coinvolge, lo porta in giro con sé. Costringe anche il padre a fare i conti con lui. L’uomo è molto malato a causa di un ictus e Mimmo da quel momento non lo lascerà mai più solo, lo accudirà per nove lunghi anni, ogni giorno darà il cambio alla seconda moglie del padre, si occuperà delle medicine, accorto e diligente, gli terrà la mano fino all’ultimo giorno.
La devozione di Mimmo al padre è toccante, ancora di più se messa in rapporto con l’assenza dell’uomo, un albergatore di 13 anni più grande della signora Ioele. «Il mio percorso mi ha portato a comprendere perché il mio ex marito si è comportato in quel modo», spiega Iole. «Lui non ha mai fatto un regalo a Mimmo, neppure una biro a Natale, non ha pagato mai le 70 mila lire stabilite dal tribunale per il mantenimento, ha perso la patria potestà. Se lo avesse fatto avrebbe dovuto ammettere di avere avuto un figlio imperfetto ».
L’incontro con il fratello Antonio cambia la prospettiva della vita di Iole e Mimmo. «Non solo ho trovato un lavoro al ragazzo, che oggi ha 38 anni ed è un dirigente, ma da quel momento non è più uscito dalla nostra vita», racconta. «Lui e la moglie, una ragazza straordinaria, hanno voluto che io facessi da baby sitter al figlio, e per me è stato un dono, una gioia infinita. Oggi posso chiudere gli occhi tranquilla perché so che questa coppia si prenderà cura di Mimmo. Io che ho conosciuto la disperazione, ho trovato la serenità».
«Nonostante sia stata la tragedia della mia vita mi sento vincente», spiega. «La malattia di mio figlio è stata un’occasione che mi ha resa migliore. Non la vivo con frustrazione, non mi sento prostrata dalla tragedia. Addolorata lo sono sempre, ma c’è pure un senso di vittoria sul male. Nonostante abbia una vita diversa, sono già paga di questo miracolo che è avvenuto. Mio figlio oggi è felice, può contare sul fratello, adora il suo nipotino. Sì, parla della fidanzata, c’è il desiderio del sesso, vorrebbe l’auto, ma sono cose che si riescono a gestire e io sono serena».
Mimmo oggi conduce una vita dignitosa: legge, ascolta la musica, si interessa a programmi televisivi, anche di politica, va alle presentazioni alla Feltrinelli o alla Fnac (in una di queste ha fatto amicizia con Valeria Parrella che, prima di vincere il Campiello, lavorava come commessa). Lo chiamano a casa per ricordargli gli eventi, lui prende i depliant e si segna sul calendario gli appuntamenti da seguire. Iole mantiene sempre le regole: orari di rientro e telefonate per avvertire se c’è un ritardo.
«Vedete, la difficoltà sta nel fatto che nell’autismo precoce ci si trova davanti a un palazzo senza fondamenta, bisogna insegnare tutto a un ragazzo che non ha imparato a vivere, a relazionarsi», conclude la signora Ioele. Bruno Bettelheim li chiama “la fortezza vuota”, è il titolo di un suo libro famoso. «Spesso noi genitori non siamo in grado di aiutarli. Qualche volta siamo di ostacolo. Mimmo è riuscito a mangiare cibi solidi solo dopo il distacco da me. Non avevo il ruolo per farlo. La mia bravura è stata quella di saper scendere nel suo mondo psicotico per riportarlo nel nostro. Partivo da un “sì” a qualunque sua richiesta. E davanti a un gesto violento, quando rompeva qualcosa, per esempio, invece di sgridarlo, di punirlo, cercavo di capire il motivo per cui lo faceva. Questo lo ha fatto sentire sempre capito. Ci sono voluti anni perché questo messaggio arrivasse. Ma ci sono riuscita».
(di Francesca Amendola & Mario Raffaele Conti)

E' un articolo che riguarda una signora della nostra Regione, è un articolo che non parla della solita riflessione scientifica sul caso, ma mette sul tavolo quello che, nel migliore dei casi, realmente accade nella realtà.
Una storia vera e toccante che deve essere lo spunto per discutere, partendo dalla pubblicazione delle "Linee guida sull'Autismo" dall’Istituto Superiore di Sanità, su questo disturbo del neurosviluppo che secondo i dati della Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile ha un’incidenza che varia da 2 a 5 persone ogni 1000, a seconda dei criteri diagnostici impiegati.
E' il segno della nostra prestata attenzione al problema, e non è cosa da poco.

25 novembre 2010

Trasformazione di coppia



Le nostre ‘relazioni’ d’affetto erano generalmente durature: promettevamo di amarci reciprocamente per sempre. Oggi però queste relazioni non funzionano più: finiscono, non sembrano più quello che erano una volta, quello che pensavamo dovessero essere, ci spezzano il cuore e si frantumano. La metà dei nostri matrimoni si conclude con il divorzio, e chissà quanti altri amori di prova, di pratica e ‘part-time’ naufragano sugli scogli. Nessuno di noi può dire di essere passato indenne attraverso il tunnel dell’amore e all’inizio di questo nuovo millennio la nostra identità di amanti muore e allo stesso tempo diventa adulta. (D. R. Kingma, Il futuro dell’amore, Gruppo Futura, 2000, p. 9)

1. Vecchi modelli in crisi

Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una serie di profonde trasformazioni nei rapporti di coppia. Il modello tradizionale incentrato sul matrimonio è sempre più entrato in crisi, sia per l'emergere di una maggiore libertà sessuale, sia per la crescente intolleranza degli individui verso i vincoli, gli obblighi, le formalità e anche se molti ancora optano per il matrimonio si trovano poi spesso a separarsi e a divorziare nel giro di pochi anni, se non mesi[1]. Aumenta il numero delle coppie conviventi e dei single, ma anche per loro il rapporto di coppia è sempre più difficile da vivere: incomprensioni, litigi, crisi sono sempre più frequenti, mentre la durata media delle relazioni diminuisce vertiginosamente. Ma perché tutto ciò accade? Quali sono le cause di questo fenomeno che genera grande sofferenza individuale e sociale? Se le cose vanno male è veramente “tutta colpa sua” come molti ritengono?

La questione è complessa e varie sono ne sono le cause.

1) In primo luogo l’analfabetismo emotivo-relazionale dei partner – entrambi – che non sanno comprendersi e relazionarsi, ma anche la latitanza della società, che non fa niente per educare le persone alla buona comunicazione, alla consapevolezza dei sentimenti e delle emozioni, alla gestione costruttiva della relazione. In passato le relazioni di coppia erano vincolate da copioni socialmente prestabiliti e rigidi e non richiedevano particolari abilità comunicative, mentre oggi sono diventate sempre più libere e flessibili, e ciò le rende più intense e stimolanti ma anche più difficili da gestire perché richiedono conoscenze e abilità che nessuno – né in famiglia, né a scuola - ci ha mai stimolato a sviluppare. Per godersi i vantaggi di questa nuova libertà ed evitarne i numerosi e dolorosi effetti collaterali (litigi, incomprensioni, crisi, separazioni) sono dunque indispensabili appropriati “strumenti” di consapevolezza e di comunicazione, che non possiamo inventare da soli ma che possono essere sviluppate attraverso opportune letture e soprattutto la partecipazione ad appositi corsi tenuti da formatori qualificati (vedi a riguardo E. Cheli, Comunicazione e relazioni interpersonali, in corso di stampa).

2) In secondo luogo il fatto che nonostante tutto sia cambiato, intorno e dentro di noi, il matrimonio ha mantenuto saldamente la sua identità arcaica. Diversamente che in passato ci si può separare, divorziare, risposare anche, ma lo schema non è realmente cambiato, nel senso che l’ istituzione “matrimonio”– così com’è – non è adatta a soddisfare i nuovi bisogni e aspirazioni dei coniugi, che non sono più quelle del passato, quando ci si sposava per mettere su famiglia, per acquisire uno status sociale, per guadagnarsi una certa indipendenza dalla famiglia di origine, o più semplicemente perché a una certa età ci si deve sposare. La funzione sociale del matrimonio era principalmente quella della procreazione, della trasmissione ereditaria del nome e dei beni della famiglia, della alleanza tra famiglie, mentre oggi tali scopi sono sempre più secondari, prevalendo invece il reciproco benessere affettivo, sessuale e materiale dei coniugi, e non solo, poiché la relazione di coppia mette in gioco molte altre dimensioni – intellettuali, esistenziali, e anche strettamente pratiche - che portano inevitabilmente ad un incontro e ad un confronto di personalità e di mentalità.

In passato i coniugi, pur abitando sotto lo stesso tetto, vivevano in due mondi separati: i loro compiti erano nettamente distinti e le reciproche aspettative assai diverse da quelle attuali, poiché il partner era visto più come un ruolo (marito-moglie, padre-madre dei propri figli) che non come una persona. Salvo rari casi non si avvertiva alcun bisogno di conoscersi a fondo, di costruire una intimità, un dialogo; l’importante era che ognuno si comportasse bene, che svolgesse i ruoli che gli competevano. La motivazione stessa del matrimonio – mettere su famiglia – poneva in secondo piano il partner in quanto individuo, anzi entrambi erano chiamati a rinunciare alla loro individualità (ammesso che ne avessero mai potuta sviluppare una) a favore della famiglia. Non esisteva alcun confronto sui vissuti emotivi perché solo la donna ne era consapevole (e se li teneva per sé o al massimo ne parlava con le amiche più intime): l’uomo aveva fin da bambino rinnegato e rimosso la propria emotività e vulnerabilità e non era in grado di interagire su tale piano (né avrebbe voluto). Non esistevano confronti neppure su piani più intellettuali, poiché alla donna non era dato di parlare di certi argomenti e di avere una istruzione che non fosse cucito e buone maniere (e spesso neppure questo). Oggi invece il confronto è un elemento essenziale al buon andamento non solo delle relazioni matrimoniali ma anche di relazioni di coppia meno formalizzate, e non è un confronto facile, perché l’uomo e la donna hanno due modi di vedere le cose e di comunicare molto diverso, e nessuno ci ha mai spiegato questa diversità, che può essere fonte di grande arricchimento se la si sa affrontare ma anche di grande sofferenza se invece la ignoriamo. A questa difficoltà di base va poi aggiunto il processo di emancipazione della donna, che non si accontenta più di ricevere dal proprio partner una casa e una certa sicurezza materiale ma avanza anche altre richieste, sessuali, sentimentali e di dialogo, che non sempre lui è in grado di capire e di soddisfare, anche perché mentre la donna ha iniziato già da tempo a sviluppare il proprio maschile interiore, l’uomo – salvo rare eccezioni - non ha ancora affrontato il suo femminile interiore ed anzi lo teme.

2. Verso una nuova coppia?

E' indubbio che il modello tradizionale non risponda più alle nuove esigenze, ma è altrettanto vero che le relazioni di coppia non possono limitarsi al solo erotismo. Vi è un bisogno profondo di intimità, di confronto, di unione che non può essere soddisfatto da rapporti occasionali e richiede una qualche forma di continuità, meno rigida però di quella tradizionale. La cultura emergente non fornisce in proposito ricette certe, ma indica alcune direzioni di ricerca. Per prima cosa non esistono soluzioni valide per tutti, e ogni individuo e ogni coppia dovrebbe trovare una propria via di realizzazione: per alcuni può risultare ancora appropriata la via tradizionale del matrimonio, magari con qualche personalizzazione, mentre per altri la direzione può essere quella della convivenza o di forme ancor meno rigide da un punto di vista dei vincoli. Ciò che conta, nella nuova ottica, è soprattutto la consapevolezza e l'impegno con cui i due partner vivono la strada scelta, quale che sia. In secondo luogo, le proposte non vanno calate dall'alto ma scoperte singolarmente dall'individuo e dalla coppia attraverso un processo di libera e cosciente sperimentazione. Si può naturalmente prendere spunto da esperienze altrui, trarre aiuto e stimolo dalla condivisione, dal confronto con altri individui e con altre esperienze, per poi però giungere a creare la propria personale sintesi.

Grazie alla libera sperimentazione condotta a partire dagli anni '60, ci si è resi conto che la promiscuità non è alla lunga soddisfacente, ma anche che "stabile" non significa necessariamente “a vita”. I nuovi principi sul come vivere le relazioni di coppia andranno ispirati ad una grande flessibilità, che tenga conto del fatto che gli individui sono diversi tra loro e che le fasi della vita, pure, possono rispecchiare bisogni diversi. Pertanto ciò che va bene per uno può non andare bene per l'altro, così come ciò che va bene in una certa fase può poi richiedere un cambiamento in funzione della continua evoluzione. (Per un approfondimento sulle nuove forme di relazione vedi D. R. Kingma, Il futuro dell’amore, ed. Gruppofutura, 2001).

3. Incontro, scontro e crescita nelle relazioni

Come si è visto, la relazione di coppia oggi non si limita più alla famiglia e alla procreazione, e non si esaurisce neppure nella sessualità e nei sentimenti, ma mette in gioco molte altre dimensioni che portano inevitabilmente ad un confronto di personalità e di mentalità che può evolversi sia come crescita sia come scontro, più spesso entrambi. Nelle fasi iniziali di una relazione le persone tendono a fare bella figura, a mostrare la parte "migliore" e più accettabile di sé. Se poi tra loro nasce un innamoramento ognuno tende a vedere l'altro ancor più bello e apprezzabile, idealizzandolo. Tuttavia, presto o tardi anche altri aspetti della personalità emergeranno e alla fase iniziale dell'innamoramento, in cui il partner appare splendente come il sole, subentrano fasi meno brillanti in cui si prende coscienza anche dei suoi limiti e dei suoi lati meno lucenti: l'ombra. E' qui che nascono le prime incomprensioni, le prime delusioni, i primi conflitti che poi, se manca una reciproca capacità di comunicare (e quasi sempre manca) inevitabilmente vanno ad accentuarsi fino a portare alla crisi.

I modi di affrontare questi problemi variano da persona a persona: alcuni tendono a nascondere il disaccordo, inscenando una rappresentazione di armonia tutt'altro che veritiera, oppure si rassegnano a convivere con le tendenze distruttive, alternando fasi di litigiosità a fasi di relativa quiete. Altri, giunti oltre un certo livello, decidono di cessare la relazione per cercare un'altra persona che gli faccia riprovare l'ebbrezza dell'innamoramento e che sia finalmente quella giusta. Se in passato prevaleva la prima tendenza (rassegnazione e conflitto sotterraneo), oggi sta sempre più affermandosi la seconda (separazione e ricerca di un nuovo partner). Tuttavia, per quanto intensa possa essere la fase di innamoramento, per quanto giusto possa apparirci il nuovo partner, prima o poi si manifesteranno anche i suoi limiti e aspetti ombra, rinascerà il conflitto e saremo di nuovo punto e a capo. Il fatto è che tutti i suddetti modi di affrontare la questione sono errati: non va bene ignorare o sopportare il problema, perché vuol dire rinunciare a quanto di più bello una relazione di coppia può offrire, e non va bene neppure passare da una storia all'altra all'eterna ricerca del partner ideale, poiché non esistono persone fatte di sola luce e ognuno ha in sé anche delle zone oscure, inconsce, che premono per emergere e essere finalmente riconosciute. La relazione sentimentale non ha solo lo scopo di far stare bene i due partner, ma è anche e soprattutto il luogo in cui ognuno dei due desidera colmare il proprio senso di incompletezza e guarire una volta per tutte le proprieferite d’amore primarie, vale a dire le carenze affettive e le delusioni subite durante l’infanzia, inclusi gli eventuali abusi fisici o morali. E’ un desiderio per lo più inconscio ma molto, molto potente, che influenza profondamente la dinamica della relazione e che ho illustrato più estesamente altrove (vedi E. Cheli, Amarsi, comprendersi nelle relazioni di coppia)

Da bambini le nostra speranza più grande è che i nostri genitori ci accettino così come siamo e si impegnino a comprenderci realmente, a rispettarci ed amarci come e quanto abbiamo bisogno. Purtroppo è una speranza che si avvera solo in parte, talvolta addirittura per niente, creandosi così delle vere e proprie ferite affettive, più o meno profonde a seconda dei casi. Col tempo subentra una sorta di abitudine, di rassegnazione e infine di oblio. Ma la speranza non è morta, è solo in animazione sospesa, e si risveglia quando ci troviamo coinvolti in una relazione di coppia. Non sempre e non subito, però: solo in quelle relazioni in cui c’è un profondo coinvolgimento affettivo, un innamoramento, e solo quando i due hanno raggiunto un certo grado di confidenza e intimità e iniziano a fare a meno delle maschere. A questo punto scattano in entrambi forti aspettative nei confronti dell’altro:

“Che cosa farai per me? Mi aiuterai? Mi ascolterai? Mi farai sentire bene? Realizzerai i miei sogni? Sarai il padre che io non ho potuto avere, la madre che non ho avuto? Adesso che mi sono innamorato di te, tu hai il dovere di far scomparire le mie sofferenze. Ascoltami, guariscimi, fammi stare bene. (…) Ci sono due tipi di bisogni emotivi che cerchiamo di soddisfare nelle nostre relazioni intime: uno è quello di cui siamo consapevoli (fammi felice, dammi la sicurezza economica, sii un buon padre per i miei figli), l’altro è costituito dalle esigenze emotive inconsce che rappresentano il tentativo della nostra personalità di guarire tutto ciò che si frappone alla nostra capacità di sentirci integri. In ogni relazione esiste dunque un viaggio emotivo nascosto.” (D. R. Kingma, op. cit., p. 41)

La relazione di coppia diviene insomma una opportunità tramite cui crediamo di poter guarire una volta per tutte le ferite d’amore, le carenze affettive, le delusioni subite durante l’infanzia e il partner diviene per certi aspetti un sostituto di nostro padre, di nostra madre (o di entrambi) e inconsciamente lo invitiamo – talvolta sfidiamo - ad amarci in modo totale, ad accettarci per quello che siamo, ad essere il genitore perfetto che non abbiamo mai avuto ma abbiamo sempre desiderato.

Si tratta, come è facile intuire, di aspettative eccessive, che solo una mente bambina può sperare di poter soddisfare e tuttavia il nostro inconscio è sempre allo stadio infantile – è inconscio proprio perché non ha voluto /potuto crescere – e quindi è proprio sulla base di tali aspettative che passiamo dall’innamoramento alla relazione stabile. “Quando ci innamoriamo non ci limitiamo a dire: ‘Hai proprio una mente meravigliosa, sarà una gioia parlare con te per i prossimi cinquant’anni’. Quello che diciamo in realtà è: ‘Hai proprio una mente meravigliosa; mi aspetto anche che tu sia un amante eccezionale, una compagnia straordinaria per le uscite del venerdì sera, un padre stupendo, il mio sostegno e la mia spalla in società, il mio compagno politico, la persona di cui i miei genitori si possono fidare, il conforto nei momenti di sofferenza, e anche il mio guru, il mio lacrimatoio e la mia banca personale’” (ibidem).

Poiché ci aspettiamo che una singola relazione soddisfi pienamente e perfettamente tutte le nostre esigenze in questa maniera stravagante e irreale, naturalmente tendiamo ad escludere tutte le altre persone che potrebbero partecipare alla soddisfazione delle nostre esigenze; questo allevia tali persone da potenziali fardelli e in un certo senso fa sembrare la vita meno complicata, ma sovraccarica il partner - che è soltanto un semplice mortale che ci ama, non un dio che può realizzare ogni nostro sogno e, nell’aggrapparci a questo mito diventiamo troppo esigenti.

Se ci limitassimo ad invitare il partner ad amarci, senza sfidarlo, senza aggredirlo, senza nasconderci, il rapporto sarebbe meno teso, meno ambiguo; se sapessimo comunicare con chiarezza e chiedere apertamente al partner ciò di cui abbiamo bisogno, lo metteremmo nelle condizioni per fare del suo meglio e capiremmo che anche lui si trova nella nostra stessa situazione. Potremmo a questo punto reagire in due modi:

1) Lasciarlo, perché ci ha rivelato la sua fragilità e i suoi limiti mentre noi cerchiamo un partner super che non sia ferito e bisognoso ma generoso, impeccabile e tutto per noi (questa aspettativa è molto simile a quella del bambino verso il genitore: da piccoli tutti noi vediamo i genitori come esseri enormi, onnipotenti, vere e proprie divinità). Si tratta di una reazione sbagliata, ma sempre meglio che continuare a perdere tempo in sfide, conflitti, scontri.

2) Affrontare in modo più realistico il rapporto, comprendendo che il nostro partner non ha il potere magico di guarire le nostre ferite di cuore e di riempire i nostri vuoti esistenziali – né lui né nessun altro partner. Guarire tali ferite e colmare tali vuoti è un processo possibile – anche se lungo e laborioso - ma può avvenire solo attraverso l’autoguarigione; certo, un partner comprensivo e amorevole può esserci di grande aiuto, ma il lavoro ognuno lo deve fare da sé su di sé.

Il punto di partenza per un tale lavoro è assumersi la responsabilità della propria guarigione, senza scaricarla su altre persone: né sui nostri veri genitori né sul nostro partner. Dobbiamo accettare che quel che è stato è stato: nostri genitori non cambieranno, così come le situazioni e le cause che hanno prodotto le nostre ferite affettive non possono essere cambiate: appartengono al passato e i fatti del passato non possono mutare. Può però mutare la nostra interpretazione di quei fatti e possono mutare le conseguenze di quei fatti. Posso per prima cosa interpretare la mancanza di amore non come una mia sfortuna e ingiustizia privata ma come un male collettivo che affligge tutta l’umanità; in tal modo smetterò di sentirmi vittima e di attribuire colpe agli altri – se colpe vi sono, sono collettive – e potrò poi perdonare coloro che – genitori, partner precedenti – involontariamente mi hanno fatto soffrire perché a loro volta sofferenti.

Posso a questo punto lavorare sul mio malessere attuale prescindendo dalle cause passate: se un’altra persona ferisce il mio corpo con un coltello, posso curarmi la ferita senza il bisogno coinvolgere colui che mi ha ferito; per guarire non è necessario né che recuperi il coltello, né che mi sforzi di indurre l’altra persona a cambiare e a non farlo più. Analogamente, potremmo curare le ferite affettive senza tirare in ballo i nostri genitori, ma imparando a fare da padre e madre amorevoli di noi stessi – qualcosa di molto simile a ciò che molti maestri spirituali hanno chiamato “amare se stessi”. (per un approfondimento cfr. E. Cheli, Amarsi, comprendersi e anche L’età del risveglio interiore, Franco Angeli).

Oltre a curare le ferite dobbiamo anche imparare a comunicare meglio con noi stessi e con l’altro, a comprendere e accettare le nostre e le altrui zone d’ombra, e a riconoscere e gestire le nostre e altrui emozioni, poiché solo così potremo davvero aiutarci e sostenerci in questo difficile ma entusiasmante percorso che è la relazione.

“La natura umana era in origine unica e noi eravamo interi, e il desiderio e la caccia dell’intero si chiama amore” (Platone, Simposio).


di Enrico Cheli

10 aprile 2010

MIFEPRISTONE

Ancora si torna a parlare della VITA.

Ne parliamo in occasione dell'uscita sul mercato italiano di una piccola pillola in grado di aver effetti rilevante sulla decisione di mantenere o interrompere una gravidanza.

parliamo della pillola Ru486.

A BASE DI MIFEPRISTONE (ormone steroideo che agisce direttamente sui recettori del progesterone, l'ormone che assicura invece il mantenimento della gravidanza, bloccando la sua azione e inibendo lo sviluppo embrionalei) LA PILLOLA Ru486 E' IN GRADO DI INTERROMPERE LA GRAVIDANZA GIA' INIZIATA CON L'ATTECCHIMENTO DELL'OVULO FECONDATO. L'ABORTO FARMACOLOGICO TRAMITE Ru486 PREVEDE L'ASSUNZIONE DI DUE FARMACI: LA Ru486 APPUNTO (che interrompe lo sviluppo della gravidanza) IN ABBINAMENTO A UNA PROSTAGLANDINA CHE PROVOCA LE CONTRAZIONI UTERINE E L'ESPULSIONE DEI TESSUTI EMBRIONALI CON UN PROCESSO SIMILE A CIO' CHE ACCADE QUANDO AVVENGONO LE MESTRUAZIONI.


Ru486, dimessa la prima paziente
altre due prenotate per lunedì

In mattinata è tornata nel Policlinico di Bari la giovane donna che mercoledì ha assunto per prima la pillola abortiva per compleatre il trattamento: tutto è andata secondo i programmi, nel pomeriggio è stata dimessa. Altre due donne lunedì assumeranno la Ru486. Presto un ambulatorio con un numero verde

Altre due donne, dopo la prima che ha concluso oggi il trattamento, faranno ricorso alla pillola abortiva Ru486 nella prima clinica ostetrica del Policlinico di Bari. Per entrambe il ricovero è stato fissato per lunedì prossimo.
Le due pazienti, ha precisato il coordinatore del servizio di pianificazione familiare della clinica, dott. Nicola Blasi, sono state sottoposte in questi giorni a controlli ed esami per verificare la loro compatibilità con il trattamento farmacologico.

Al momento, nella farmacia ospedaliera sono disponibili nove dosi della pillola abortiva. La decima dose è quella già utilizzata per la prima donna donna che due giorni fa ha potuto usufruire del farmaco e che è ricoverata nel Policlinico di Bari per le ultime fasi del trattamento. Il dott. Blasi non esclude che già nei prossimi giorni il responsabile del servizio di farmacia del Policlinico faccia la richiesta di nuove dosi del farmaco visto che stanno arrivando al centralino del nosocomio barese numerose richieste di donne che chiedono di sottoporsi al trattamento abortivo farmacologico.

A partire dalla prossima settimana il Policlinico di Bari attiverà un numero verde per chi voglia assumere informazioni e prenotare visite nella clinica ginecologica finalizzate all'utilizzo della pillola abortiva Ru486. Lo ha annunciato il coordinatore del servizio di pianificazione familiare della prima clinica ostetrica del nosocomio barese, dott. Nicola Blasi, a conclusione di una riunione avuta con il direttore sanitario del Policlinico, Mariapia Trisorio Liuzzi.

Nella riunione è stato anche fatto il punto su una serie di questioni organizzative relativa all'avvio della somministrazione in via ordinaria della pillola e decisa l'apertura di un ambulatorio con un medico responsabile e due ostetriche dedicato alle pazienti che chiederanno di sottoporti al trattamento abortivo farmacologico. Il numero verde, ha precisato Blasi, sarà attivo da martedì prossimo. Nel frattempo, per le richieste di informazioni il numero provvisorio da contattare è lo 080-5593425.
Risponderanno le ostetriche che daranno informazioni sulla legge 194 e sulla somministrazione della Ru486.


(tratto da LA REPUBBLICA del 09.04.2010)

20 febbraio 2010

QUANDO LE PROTAGONISTE NON SONO SOLO DONNE


Al contrario di quanto si crede comunemente i disturbi del comportamento alimentare non affliggono soltanto le donne. Infatti sebbene la stragrande maggioranza delle persone colpite da disturbi del comportamento alimentare, quali anoressia e bulimia, siano di sesso femminile, è sempre più evidente che è in aumento il numero degli uomini affetti da questo tipo di patologia. Si stima che circa il 5-10% dei pazienti anoressici e il 10-15% dei pazienti bulimici siano maschi.

L’incidenza dei disturbi del comportamento alimentare nei maschi è sottovalutata sia perchè, data la prevalenza del disturbo tra le donne, si tende a non porre la diagnosi, sia perchè alcuni comportamenti, come le abbuffate nel caso della bulimia, sono socialmente più accettati se messi in pratica da un uomo. La diagnosi è inoltre resa difficoltosa dal fatto che i criteri diagnostici sono classicamente riferiti a pazienti di sesso femminile, ad esempio uno dei criteri principali per porre una diagnosi di anoressia è l’alterazione del ciclo mestruale con amenorrea protratta.

Anche per il maschio anoressico/bulimico il rapporto col cibo, col peso e con il corpo subiscono una distorsione causata da problematiche inerenti la sfera affettiva della persona – non viene mai abbastanza sottolineato come anoressia e bulimia non rappresentino semplicemente patologie legate ad errate abitudini alimentari dettate dal desiderio di pervenire alla forma fisica ideale- . La società occidentale infatti comincia ad imporre in maniera crescente anche agli uomini elevati standard di bellezza cui adeguarsi, rappresentati, in questo caso, più che dal controllo del peso dalla prestanza fisica.
Da numerosi studi è emerso infatti che gli uomini bulimici e/o anoressici sono meno ossessionati dal peso e ricorrono in maniera minore rispetto alle donne a diuretici e/o lassativi mentre è più diffuso il ricorso a esercizi fisici estenuanti. Spesso il disturbo, nel caso dell’anoressia, viene celato dal regime alimentare rigoroso richiesto da molte pratiche sportive, soprattutto nel caso di pazienti che abbiano praticato sport a livello agonistico.


Analogamente a quanto si riscontra nelle più diffuse forme femminili l’esordio è da collocarsi in epoca adolescenziale, nel momento in cui cioè il bambino si ritrova davanti al difficile compito di strutturare la propria identità di adulto, o intorno alla prima età adulta (19/20 anni).

In particolare nei maschi sembrerebbe più frequente l’esordio tardivo. Il versante maschile dei disturbi del comportamento alimentare sembra essere in relazione con aspetti problematici della sfera sessuale, da alcuni studi è emerso che questi pazienti lamentano ansietà rispetto alle prestazioni sessuali al punto da considerare un sollievo il fatto che il digiuno prolungato li ponga in una tale situazione di sfinimento da annullarne le pulsioni sessuali. Alla perdita di interesse sessuale possono associarsi episodi di impotenza e abbassamento dei livelli di testosterone. Inoltre gran parte dei pazienti anoressici e/o bulimici nutre dubbi relativi alla propria identità sessuale.

Anche nel caso di anoressici/bulimici maschi è presente un basso grado di autostima, abuso di sostanze in misura più elevata che nei soggetti di sesso femminile, disturbi d’ansia e dell’umore in comorbilità, l’eccessiva dipendenza dal giudizio altrui. Rispetto alle femmine è presente anche un maggior grado di iperattività ed è riferita più di frequente una storia pregressa di obesità in soggetti anoressici.

La terapia dei disturbi del comportamento alimentare può essere ancora più difficoltosa nel caso di pazienti maschi perchè in genere, a causa del ritardo nel porre la diagnosi, essi giungono a chiedere aiuto quando la malattia è ormai molto avanzata e sono ormai presenti gravi complicanze mediche causate dalla malnutrizione prolungata, e questo può deporre per una prognosi negativa.

14 febbraio 2010

La mia compagna vuole abortire: fermiamola


di Marco

Buongiorno, mi chiamo Marco e ho 37 anni. Vi scrivo perché sono disperato. Tra una settimana la mia compagna farà un'interruzione di gravidanza. Non permetterà a nostro figlio di venire al mondo. La cosa sconvolgente è che su quel figlio abbiamo fantasticato... non è stato un incidente. L’altra cosa sconvolgente è che tra noi andava tutto benissimo e non è accaduto niente che potesse rovinare il nostro rapporto. Semplicemente da un giorno all'altro non ho più trovato di fronte la stessa persona. Premetto che la nostra è una relazione molto giovane e vissuta in gran parte in clandestinità, ma poi era diventata finalmente libera. Ora, purtroppo, non mi dà neanche più spazi per avvicinarmi a lei. Sarei pronto a prendermi l'impegno di crescere da solo nostro figlio. Ma non vuole sentire. Ha rigetto, lo vede solo come una cosa di cui liberarsi. Al più presto. Ho migliaia di messaggi, mail e lettere che comprovano tutto ciò che vi sto dicendo. La legge italiana tutela solo le donne. Quando una donna vuol mettere al mondo un figlio senza il supporto del padre è donna-coraggio, mentre l'uomo è solo un poveraccio con desiderio di paternità. Non desidero altro che prendermi la responsabilità di qualcosa che abbiamo fatto in due e i cui frutti non sono un oggetto fastidioso di cui liberarsi al più presto ma una nuova vita. Potete fare qualcosa, smuovere l'opinione pubblica o ritenete che non interessi a nessuno e sia una causa persa in partenza? Comunque sia mi riserverei altri due tre giorni per tentare un approccio con lei, per poterne parlare da persone adulte, per affrontare la cosa insieme. Marco



da www.ilgiornale.it


Incuriosito da questa notizia e da come quotidianamente trattiamo i problemi che da invadono le nostre vite private, il Messaggero Kern ha voluto porre l'attenzione su quanto Marco, il protagonista della storia sta vivendo;

Quella di Marco non è solo una battaglia a difesa del suo amore, a difesa della propria continuità genetica ed affettiva;

La sua è una vera e propria battaglia contro la convinzione che solo le donne hanno priorità in situazioni socialmente complesse!


che ne pensate!!!